Camera privata – Dalla parte di Zeno.
Blog | 26 gennaio 2016
C’è una valigia chiusa in questa camera. Una valigia chiusa suscita talvolta paura, ma suscita sempre curiosità. A volte suscita curiosità nell’estraneo che la vede e paura in chi la possiede. È stata a lungo nascosta in uno scantinato. Talmente a lungo che il suo padrone se ne stava dimenticando, rischiando di restare senza memoria. E poteva essere il modo per dimenticare l’ingombrante eredità. Tutto quello che si dimentica non è importante. Ma non è andata così. Non è bella, è importante. La apro. L’azione nasce sempre da un pensiero molesto di cui vuoi liberarti. Contiene fogli di carta, un cartoncino di colore azzurro, una fotografia strappata a metà, una diecimilalire, una tessera di un ordine diplomatico, una lettera di assuzione di una banca, lettere d’amore in francese, biglietti di auguri per compleanni, natale e pronta guarigione. Contiene un cumulo di appunti: osceni, drammatici, ridicoli, tragici, discorsivi, arrabbiati, romantici, disgustosi, vecchi, con le correzioni. Perché non si sa mai. Tutte frasi brevi quanto un respiro. La osservo. Adesso. E sospendere un momento. Provo a raccontare. L’accadimento nel momento in cui accade. Perché cosa racconti se non vivi un’esperienza? Accadde un’ellittica sera di prima estate. C’era vino rosso, pane, salumi, formaggi e sigarette. Tante sigarette. E tra una sigaretta e l’altra, parole. Tante parole. Per raccontare una vita che non era la mia vita ma quella che mi avevano raccontato. E poi i saluti. Chi è restato ha parlato d’altro. Alla fine bisognava entusiasmarsi.
È una sera di febbraio. Napoli è meno calda del solito. Il quartiere San Lorenzo sembra spento. Arrivo con calma interiore e buon anticipo. La mia storia in un’opera teatrale. Mi accolgono i manifesti con lo stile essenziale e asciutto. Buon segno. Qualche parola scambiata con l’amico di testa, qualche saluto affettato a nuovi volti. Mi concedo un pensiero di scommessa sulla mia permanenza. Ho lo spirito della mobilità che scalpita. Passeggio, bevo qualcosa, fumo. Qualcuno mi chiede, io parlo della mia inamovibilità delle emozioni. Provo a restarmene da solo. Prendendo posto in sala, accade. Gli amici ci sono, a giusta distanza. L’autrice c’è, a giusta distanza. Sono in un non-luogo ben custodito. Questo non-luogo è il tempo. La scenografia rappresenta tutti i temi della vita, uno dentro l’altro, uno più o meno importante dell’altro. Ritrovo Zeno – Io. Mi nascono delle domande. Nel pormi queste domande sono costretto a tornare con la memoria agli appunti della valigia. Per un’ora e mezza possiamo stare insieme una seconda volta.
Scena 13 – Monologo di Zeno
Vede, dottore, non è solo questo. Non è solo sapere che dietro non c’è nessuno, o chi credevi ci fosse invece passeggiava per altre strade, correva altri pericoli o rincorreva nuove possibilità. Vede, dottore, c’è altro.
È che l’umanità è ostile.
E non pecco di presunzione se dico che non è ostile solo a me, ma anche a te, a lui, a loro. L’umanità è ostile a se stessa perché non si riconosce.
Il mondo ci si fa sempre più astratto, i messaggi viaggiano senza nome, questa corsa non dà vigore ai muscoli, né la gioia del vento in faccia, né l’ambizione della méta. Corro ogni mattina, dottore, attraverso un’umanità ostile. E quegli uomini che incontro nel tram, al bar, in ufficio, al negozio, con le loro mezze risposte, il loro sorriso chiuso, le loro menti lontane… empatici solo per convenienza, attenti solo per soldi e capaci di esserlo solo fino a risultato ottenuto. E però, senza giudizio morale, dottore: tutto questo senza bellezza, senza fuoco, senza slancio: solo come a far passare la giornata o la settimana, il mese o la vita. Questi sono i discorsi ostili al genere attraverso cui io corro ogni mattina. Io attraverso l’umanità piantata, ferma: come fosse la foresta della mia vita, dottore. Attraverso gli uomini, ciascuno un albero: ma la pineta è secca e l’umanità ostile. Il percorso difficile e io sono solo.
È questo più di tutto, dottore, questo: più dell’adozione, più della mia doppia madre e del mio doppio padre, o di uno solo di loro, o di nessuno. Ché mi pare come quando assolvo al mio compito d’ufficio, di computare, computare, computare: così mi pare che i miei genitori si annullino come due parti di una frazione, nominatore e denominatore, e a me non resta niente. Raso al suolo il passato. Il risultato è zero. Resta il presente, dottore, dentro un’umanità che odia se stessa, perché non si riconosce. Come me.
***
E quando tutto è finito, quando si sono spente le luci, sfumate le parole, svuotati i bicchieri, spente tutte le sigarette, accompagnati gli amici, resto solo in auto. E così, ricomponendo nella testa immagine per immagine, parola per parola, trovo risposte. Mi tornano in mente le parole di Toni Servillo a proposito del recitare in questo teatro San Ferdinando: “Recitare è una vera e propria deflagrazione. Questa deflagrazione produce uno scoppio, che fa sì che dall’indifferenza della giornata tu dici ah perbacco! Sta succedendo qualcosa.” Stasera è successo qualcosa. Ora capisco ciò che ho vissuto.
NdA Dalla parte di Zeno è uno spettacolo teatrale di Valeria Parrella, in scena al San Ferdinano di Napoli dal 20 gennaio al 7 febbraio.
Qui: Dalla parte di Zeno – San Ferdinando Napoli
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