Camera 252 – Senza parole.

Blog  |  08 aprile 2014

rid room 252 cuijk

Cuijk, 8 aprile 2014

Certo, avessi potuto scegliere ieri sera, mi sarebbe piaciuto stare ad ascoltarti. Avrei voluto scoprire chi sei, cosa vuoi, cosa desideri, cosa sogni, cosa ti manca.

Non è difficile vivere da soli. Difficile è raccontare quello che si vede, si prova, si sente quando si passano dodici mesi della propria vita che si rigira su stessa e in uno spazio. Nuovo. Difficile è raccontare il passaggio da uno spazio transitivo ad uno spazio apparentemente definito. E in questi mesi vedi ogni giorno la stessa ombra, la stessa luce, di chi eri prima. E vedi ogni giorno sedici volte l’alba e il tramonto sulla nuova casa. Puoi coprire, con un solo sguardo, gli ultimi quindici anni vissuti e ti trovi a fare pensieri che prima, in una camera, sarebbero stati impensabili. E sei anche costretto a stare gomito a gomito, per ore, giorni, mesi, con un altro te stesso. Sarebbe impossibile altrove. Si scatenerebbero litigi, discussioni, passioni, incomprensioni. E in certe notti, puoi emozionarti rileggendo le sue parole, riascoltando la sua musica, rivedendo le sue fotografie. Ma di più non puoi permetterti.

Ho scoperto di avere scritto questi pensieri nei miei appunti di ogni giorno, nei pensieri raccolti di notte sul taccuino accanto al letto, negli articoli di questo blog. Rileggendo tutte quelle pagine e quelle righe, scopro che da quell’altro lato di me, da quell’altro tempo di me, tutto sembrava più normale e più scontato. In effetti lo era: mi ero abituato, giorno dopo giorno. Ero allenato ad affrontare ogni variazione di percorso, ogni cambiamento di orari e giorni. Ma non mi ero preparato a vivere per un tempo così lungo alla precarietà. Poi, qualcosa  è cambiato. Ricordo che all’inizio non la sentivo come casa. Ho iniziato a viverci come sapevo, come riuscivo, per un periodo che, appena arrivato, non sapevo quanto sarebbe stato lungo. Una delle emozioni più grandi è stata quella di aprire per la prima notte la porta di casa. Entrarci di sera, scoprire come era fatta, anche se ne conoscevo a memoria ogni particolare, ogni dettaglio. E con emozione ho cominciato a ricevere le prime visite. Preparando caffè, la cosa che mi riesce meglio. Dette oggi queste cose fanno sorridere, ma anche questi piccoli gesti in certi momenti sono sembrati  sconvolgenti. Poi, superata la divertente preoccupazione dell’inizio, i giorni hanno cominciato a procedere con regolarità. Forse troppa. E la routine, a un certo momento, ha cominciato a farmi paura. E quando pensavo di aver trovato un giusto equilibrio tra la finestra sulla strada e quella sul cortile, proprio in quel momento, qualcuno ha deciso diversamente. Il passato che ritorna. Anzi, il passato che si fa presente. Il passato che avvertiva la paura che non mi sentissi più umano? Superato il momento dello stupore, archiviato velocemente quello del timore, è cominciato il recupero, se così posso dire, di una identità.

Quando hai l’impulso a fare qualcosa, ti fermi per un momento, e resti fermo per un altro momento, e un altro momento ancora, e poi improvvisamente vedi quale sarà il prossimo passo importante. Ho fatto i miei errori, e sono partito per la tangente, a volte. Poi sono tornato, lentamente, ma sono tornato. Provando e facendo errori, trovo. E non ho paura di fare errori. Spesso vedo me stesso da fuori, come qualcuno che non sa bene cosa fare, e allora mi guardo intorno, e mi fido, (non) solo di me stesso. E questa visione mi da forza e mi indica cosa fare. Ho spesso vissuto basandomi su fatti e non  ipotesi, numeri e non parole, azioni e non pensieri. Ma a nulla è servito. Gli avvenimenti più belli sono accaduti quando ho usato il tempo senza basarmi su prove concrete. E ho avuto molti giorni taciturni per non riconoscere un animo triste. Certo, non ho avuto neanche il tempo di conoscerti davvero. Il tempo e le maree non aspettano. Sono molte le cose che non ti chiedo.  Molte le cose che vorrei che tu mi chiedessi. Ho ascoltato le tue ragioni, lette le tue parole, compreso le circostanze. Ma non puoi chiedermi di condividere. È un’accettazione obbligata. Non una scelta condivisa. L’atto, alla fine, si chiama abbandono. La prima volta si esprime in chiave di amore, la seconda in chiave di farsa.

Fine parte prima



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