Camera 201 – Senza parole 2.
Blog | 12 aprile 2014
Bruges, 9 aprile 2014
Eri una delle poche persone che apprezzavo, una delle pochissime che ho rispettato, unica che ho osservato con ammirazione.
Non mi è ancora del tutto chiaro se sono io arrivato improvvisamente nella tua vita, o se tu sei piombata nella mia. Ma sono sicuro che per entrambi siamo stati diversamente presenti. Non ci siamo tenuti per mano. Siamo stati vicini per un tempo che a te è sembrato sufficiente per capire che no, non potevi tenermi, e a me è sembrato insignificante per comprenderti. Il tenerci agganciati credo sia stata la nostra massima preoccupazione, a un certo momento. A quel punto pensavo che sarebbe andata avanti così, e avrei proseguito con quell’equilibrio, tra il tuo arrivo e la mia diversa umanità. Ma non è andata così. Forse è stata la paura di non essere più io, a farmi cambiare. Dover recuperare, se posso dire così, un’identità. Avrei voluto parlarti e non pensarti, ascoltarti e non leggerti. Ma mi è piaciuto da morire conoscerti, e io voglio che tu venga con me d’ora in poi. Non è difficile amare. Difficile è raccontare quello che si vede, si prova, si sente quando si passano dodici mesi della propria anima che si rigira su stessa e in uno spazio. Sono pensieri infinitamente piccoli ma immensi per me, che ricordo. Come ricordo le sensazioni, l’emozione di quando ho saputo del tuo arrivo all’ultimo minuto. E poi la vita si è trasformata, al di fuori del lavoro che assorbe una parte del tempo, in sensazioni e meditazioni, più che di avvenimenti. Passare ore, giorni, settimane e mesi senza grosse preoccupazioni, salvo il desiderio di restare a guardare insù. Con questo modus vivendi sono andato avanti bene, con l’altro me stesso. Non si parla molto, vero. Non si parla di cose comuni e banali, non si parla di problemi, non si commenta un film, un libro. Si scrivono lettere. Anche questo mi è servito a farmi mantenere un’identità definita, mentre l’aspetto cambiava ancora. Ho perso, in quei mesi, tre quattro chili, ma non facevo fatica a camminare, come mi piace ancora fare la domenica mattina. Del resto, sono qui a raccontare quei mesi, con la mia lucidità. Avevo perso la nozione del tempo invece. Da quel momento, continuo ad avere un mio orologio fatto di diverse albe e diversi tramonti, con un ritmo che potrebbe sconvolgere e che, a me, appare del tutto normale. Non è accelerato, è solo diverso. E non mi fa paura. Qualcuno mi ha chiesto se mai ho avuto paura in questi mesi. Posso dire che la paura non rientra nei sentimenti che più frequentemente ho provato, amenochè non si voglia definire paura quel senso di perdita di conoscenza di se stessi, e delle conseguenze sulla relazione con la vita. O forse, sto sottovalutando dei segnali, dei rischi. Sono qui a raccontare di queste esperienze convinto che non siano fine a se stesse, che facciano parte di un percorso che devo seguire per arrivare altrove. A me sembrano esperienze che mi vogliano dire che si acquista certo molto, ma qualcosa si perde. Comunque. O forse sono (stati) solo sogni. Senza parole.
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