La cosa di carla – Neidi.

Blog  |  12 settembre 2013

E’ una bella giornata di sole invernale di questo stretto millenovecentonovantadue. Io e le persone in coda non siamo chiusi nei nostri cappotti o impermeabili. Siamo felici di questo sole che attraversa le pareti a vetro della banca. E quando la fila si muove, un poco siamo dispiaciuti di muoverci. Lo sguardo vaga tra interessi a due cifre per investimenti sicuri a proposte di mutuo. Nessuno legge veramente quei cartelli, siamo qui convinti di avere una trattativa segreta e vantaggiosa da fare. Si apre la porta, in coda alla fila si aggiunge una bella ragazza dal cappotto rosso sgargiante. E’ aperto su una camicia bianca, tesa da fasciare il seno come una lucida carta da regalo seguirebbe le forme del delicato oggetto da proteggere alla vista. Al contrario, un paio di occhiali da sole, grandi lenti, neri e lucidi, sono appoggiati all’ultimo bottone chiuso, attirando l’attenzione come un centro nero fa con un bersaglio da tiro. Faccio fatica a rivedere il corridoio grigio di prima. Neanche i rumori provenienti dagli uffici aiuta a farmi tornare ai pensieri di prima. Squilli di telefono, porte aperte, porte chiuse, stampanti continue, fax, ascensori, voci che chiamano, tacchi che corrono. I rumori di sempre, i suoni della vite altrui che per qualche istante ascolto anche io. Osservo gli occhi della padrona degli occhiali. Entrambi ci osserviamo, siamo presi dagli sguardi, entrambi ci stiamo isolando dalla coda, a tutti e due piace sempre più trascorrere questi istanti negli occhi dell’altro. Un sorriso e con la mente abbiamo offerto all’altro ospitalità nei nostri ricordi.

Era giugno del millenovecentottantacinque e vivevo a poca distanza da tutto. A poca distanza dal treno che mi portava alla facoltà di farmacia. A poca distanza dalla morte di mio padre. A poca distanza dalla prima attesa. Non lo sapevo ancora ma stavo realizzando la mia tela, la mia cosa di carla. L’anno precedente avevo terminato gli studi superiori e mi ero iscritto al corso di farmacia. Non ricordo bene il perché. Ne posso ricordare due, forse anche tre. Ma non posso giurare siano gli stessi perché di allora. Ecco cosa succede con il tempo. Il perché originale lo dimentichi, ne aggiungi altri, la nostalgia te ne suggerisce altri ancora, i ricordi che ti vuoi raccontare te ne offrono altri ancora. Insomma, del perché fossi iscritto a farmacia non è importante per questa storia. E’ importante sapere che quel giugno era il mio primo giugno di esami. Ero convinto che gli studi di chimica durati cinque anni mi offrissero la garanzia di un successo. Fallii per il motivo più semplice e ricorrente: sottovalutazione dell’esame. Ero quindi nella condizione preferita di uno studente: finito un esame avevo diritto ad un periodo di distrazioni, di vacanza. Volevo semplicemente dimenticare gli inconvenienti dell’inverno. Non avevo un programma definito e, a dirla tutta, non che potessi fare molte cose. C’erano gli amici di sempre, di quelli che stanno sempre lì in attesa: di tirare calci a un pallone, di strappare baci alle altre ragazze, di fare un giro in motorino. Tutto a ridosso di un muretto basso, una sorta di guard rail di una strada di periferia che attraversava lo scempio di terreni abbandonati tra edifici di nuova costruzione. La vita di periferia. Ma cominciavano le prime distanze tra di noi. Gli argomenti di conversazione non erano molti e le ragazze non mi volgevano sguardi indiscreti. C’erano gli amici di scuola, qualcuno diventato compagno di studi all’università. E fu un giorno di ritorno dal corso di anatomia che la incontrai alla fermata d’autobus. Lei ancora liceale ritornava a casa dopo aver passato la calda mattinata in aula per qualche ultimo motivo. Me la presentò l’amico comune. Non una presentazione voluta, anzi. Con tutta la ritrosia possibile per mostrare, condividere, la conoscenza di una bellezza di occhi verdi, capezzoli di quasi maggiorenne che trasparivano dalla camicetta. Come puoi dimenticarli quando anche lei sta indossando una camicia a sottili righe bianche e celesti? Non la impressionai con il mio sguardo, non la impressionai con le parole. E dopo i saluti e qualche smorfia ci salutammo. L’immagine non mi restò a lungo nella mente quel giorno, ero sicuro che non ci sarebbe stato alcun altro incontro. Un paio di giorni dopo Aldo, mio compagno di studi e amico comune degli occhi verdi, m’invitò per una passeggiata notturna alla Fiera della Casa. Quell’evento classico dell’estate napoletana, quello che ti permetteva di vedere dei film alla tv alle 10 del mattino, quello delle passeggiate lungo il viale delle magnolie, quello delle ortensie coloratissime, della fontana dell’Esedra illuminata, delle vasche adiacenti con i girini e alghe e erbe. Una fiera di paese in grande, all’interno di un bellissimo parco e complesso architettonico di era fascista, la Mostra d’Oltremare. Era l’occasione per viaggiare restando a casa. C’erano padiglioni di paese esotici: i cinesi con il balsamo di tigre, gli africani con i loro tamburelli che da imbranati cercavamo di far suonare con lo stesso ritmo, c’erano le spezie dall’India. C’era il the freddo gratuito, c’era lo yogurt gratuito che mangiavi con un cucchiaino di plastica celeste, autentica novità. Poi c’era la scoperta del gioco dell’estate. E alla fine di quel percorso tra pacchiano e esotico, arrivò lei, Neidi. Sarebbe tornata a casa con noi, l’avremmo accompagnata a casa con la mia auto, l’utilitaria di mio padre. Aidi cambiava improvvisamente e continuamente lo sguardo. A volte cortese, a volte distratta, si trasformava continuamente la fisionomia del volto. Ci ripresentammo e ci avviammo attraverso tutti quiei giradini chiacchierando come fossimo soli lì. Arrivammo all’auto, Neidi sedette dietro insieme ad altre due persone, io guidavo con attenzione cercando di partecipare alla conversazione. Eravamo un gruppo di ragazzi conosciuti per caso da poco, molto rispettosi tra di noi in un buon rapporto di inizio conoscenza. Fu così che, tra qualche parola e i saluti, mi offrii di andare a prendere Aidi anche la sera successiva. Guidai dopo fino a casa pensando alla mia curiosità, alla mia audace iniziativa, alla sincera simpatia. Alla fortuna che avevo avuto, sentendomi rispondere di “si, con molto piacere”, spiazzando una concorrenza che ritenevo più qualificata di me. Passarono così le ore successive fino al nostro incontro. Il nostro primo appuntamento, alla fine della giornata di lavoro di Neidi. Lei sollevava il capo, spostava all’indietro i lunghi capelli, stendeva le gambe e fissava i fiori di magnolia. Io guardavo lei incredulo, non riuscivo a smettere di guardarla. Fu in quel momento che realizzai la mia capacità di osservazione, lunga, intensa, costante. Ero convinto che ce ne saremmo andati via presto, che l’avrei accompagnata a casa e poco più. Invece abbassò la testa, la sua ansia era svanita, il pentimento da ragazza fidanzata di un altro sera svanito. Si avvicinò e pensai che si, così va meglio. L’espressione di pelle tesa sul suo viso non c’era più, le braccia erano nude e distese, il volto sorrideva. Leggevo tutto questo e pensavo: devo prendere una decisione, dev’essere la decisione giusta. Oramai gli ostacoli più difficili sono stati superati e questa panchina è il molo da cui salpare per la notte sul mare. Ero sereno, non disturbato dalle voci dei passanti. Lei mi guardò salutandomi con un sorriso, mi guardava negli occhi, io risposi guardando le labbra, sottili, rosa che lasciavano trasparire quei denti bianchi e leggermente larghi. Fissai la bocca ancora una volta, la baciai. Mi svegliai dopo un’ora. Con un sorriso mi chiese se mi sentissi bene. Si, risposi, ho anche sognato bene.

Nelle settimane che seguirono ebbi il corso accelerato e intensivo di formazione sulle relazioni interpersonali sentimentali che avessi mai avuto fino a quel momento. Gli argomenti trattati furono nell’ordine: REC e Abbandono nell’ attesa. Neidi, seppure nella giovane età, era già avviata alla carriera di più bella del quartiere, a sposare un sistemato impiegato, ad essere moglie e mamma. Tutti status necessari e ricercati. Non c’erano cellullari, sms e posta elettronica, ma solo il telefono. Di casa. Unico a cui poteva rispondere chiunque, non in una stanza riservata. Così, lezione numero uno: quando telefonare e come fare in modo che la chiamata fosse riconoscibile. Appuntamenti in orari da pennichella, mai nello stesso punto di ritrovo, spesso in zona sufficientemente lontana da una cabina telefonica. Agitata, vivace e veloce. Era così quella storia che finì un caldo giorno di luglio, alla fermata dell’autobus. Quella fortuna che avevo avuto per avvicinare Neidi era stata di gran lunga più grande delle mie aspettative. Arrivai in anticipo sull’orario convenuto. L’appuntamento era alle due del pomeriggio. Nessun passante, nessuna nuvola, nessuna autombile. Alle quattro, senza nessuna notizia e nessuna possibilità di riceverne, me ne andai, in compagnia del patetico tentativo di dimenticare.



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