La cosa di carla – La tela. Carla.

Blog  |  08 agosto 2013

 

La prima volta che ne sentii parlare avevo tra i quindici e i sedici anni. Frequentavo l’istituto tecnico industriale per chimici, ma una sezione sperimentale. Alcuni professori erano davvero particolari, erano lì per passione. Condividevano contenuti più personali e profondi degli ampi programmi sperimentali. Così uno di loro invitò tutta la classe alla sua personale esposizione di dipinti. Arte contemporanea si direbbe. Ovvero tele grandi e piccole tutte coperte da macchie di colore, gocce di idee, strisce di concettualità. Una di queste s’intitolava “La cosa di Carla”. Quel titolo suscitò la facilmente immaginabile ilarità sessuale in adolescenti carichi di ormoni. Le Carrè, d’altronde, all’epoca, era per me uno sconosciuto. Ancora meno chiara era la didascalia che citava Marie Cardinal e Le parole per dirlo. Quella tela era però tutto tranne che appetito volgare. Nessuna immagine di nudo, nessuna donna sexy ma vestita, desiderabile ma non invitante, avvenente ma con gusto. Niente che stuzzicasse appetiti volgari. Ma il colpo di fulmine ci fu. E che fulmine! se ancora oggi a distanza di trenta anni ricordo bene la tela, l’episodio e tutto il resto. Perché come spesso accade nella vita, un apparentemente piccolo episodio, un casuale incontro, un accidentale scambio, si possono rivelare più tardi in qualcosa di permanentemente significativo. L’anno scolastico terminò e come accadeva sin dal mio primo anno d’età, iniziarono i quattro mesi di mare. Da giugno a settembre, tutti i giorni, tutti gli anni, la stessa spiaggia. L’estate. La vedevo formarsi, giorno per giorno a giugno, la vedevo decomporsi giorno per giorno a settembre. Nei primi anni della mia vita ci andavamo in famiglia perché mio padre lavorava su quella spiaggia: salvataggio a mare. Di quella spiaggia ricordo bene tutto, ma su tutto, che aveva due colori solo: il bianco e il blu. Bianca era la strada di ghiaia che faceva da ingresso, bianca la sabbia della lunghissima spiaggia, bianchi i tetti delle case di legno e dei depositi, bianca la grande cupola di cemento che faceva da prologo alla vista del mare. Blu erano le pareti delle case e dei depositi di attrezzi, blu le pareti delle cabine di legno da 4 metri quadrati, blu i teli delle sdraio, blu uno dei due slip da bagno che indossavo. Conoscevo quindi la spiaggia molto bene, conoscevo il proprietario, i bagnini che ogni estate ritornavano, i baristi e conoscevo perfino i bagnanti. Molti di loro facevano le vacanze nello stesso periodo d’estate ogni anno e sceglievano la stessa fila di cabine, la stessa cabina. Un rito nel rito dell’estate. Fu così che un po’ per gioco, un po’ per amicizia, cominciai a collaborare con la proprietà. Oggi collaborare è diventato sinonimo di lavorare grazie al vocabolario trasformazionale ma, per quello che facevo, era davvero una collaborazione. Aiutavo insomma, e guadagnavo qualche lira per i miei primi acquisti in autonomia, per le prime vacanze. La prima paga fu di ventimila lire, un mese. Ero in biglietteria e direzione, facevo biglietti e abbonamenti. Questo mi permetteva di vedere una ad una le facce dei clienti, le loro automobili, i loro bagagli. Alcuni avevano il portabagagli sul tetto carico di sedie, ombrellone, ceste di vimini piene di cibo, piccole damigiane di vino, thermos di acqua potabile. Per diecimila lire al giorno compravi il tuo piccolo spazio di estate. Al mattino verso le 11:30, passata la ressa degli arrivi di massa, mi concedevo un bagno in mare. Ecco perché ho detto collaboravo, perché avevo i miei momenti di libertà, anche senza contratto. Perché insieme a quella paghetta c’era sempre un grazie Franco. Franco, e non francesco che riapparirà solo nel 1990. Così una mattina, fermai una Fiat 127 quattroporte bianca per chiedere come solito: cabina o ingresso? Mi trovai accanto una ragazza che chiedeva qualcosa; il suo modo di parlare era furtivo e io non capivo nemmeno cosa volesse dire. Ma cominciai a seguirla da lì. Si chiamava Carla. Lei parlava molto velocemente e io invece ero come al solito timido. Mi guardavo bene dal parlare di cose mie, per timidezza. Poi la sera, quando andava via, tornavo a parlare. Carla era molto più matura dell’età che aveva. Matura nel fisico che appariva pieno di sfumature nelle linee già scolpite. Matura nella vita giacchè si prendeva cura di due piccoli nipoti, figli della sorella e del proprietario della 127. Facevo conoscenza di lei per via indiretta. La vedevo da lontano, ora portare i bimbi al mare, ora accompagnarli al bar. Ne sentivo parlare da qualche altro ragazzo, tutti attratti dal suo bikini blu e dall’atteggiamento impudico del seno da sedicenne. Avevo saputo che frequentava un liceo scientifico, che abitava in un quartiere popolare della città, che anche a casa si occupava dei bambini, che non aveva il padre, che la madre era anziana. Certe volte la vedevo nel primo pomeriggio, su una sdraio mezza addormentata con le tracce del sole del mattino sulla pelle. Aveva capelli neri e lunghi, spesso raccolti in una coda. Occhi neri e grandi. Un giorno, dai suoi occhi semi chiusi mi scoprì fermo ad osservarla. Mi disse: fammi fare un bagno. Subito. Si alzò e si avviò verso il mare fermo, caldo e abbagliante con i riflessi della luce sull’acqua. Ci trovammo in acqua, Carla mi sfiorava con le braccia nuotando a tratti. Mi trovai a dire qualcosa, lo feci pensando a voce alta, forse convinto che il rumore del mare coprisse tutto. Invece lei era molto vicina e catturò le mie parole: se fai così non uscirò più dall’acqua. Nessuno mi ha mai fatto fare un bagno così. E chiusi gli occhi, per dirle tutto quello che avrei voluto fare con lei. E il suo sguardo era lì fermo su di me, come se, qualsiasi cosa dicessi o chiedessi, Carla, invariabilmente, rispondesse: perché non lo fai? Guardavo un punto del mare. Un punto lontano, un punto dell’orizzonte e un punto oltre. Fui sfiorato dalle labbra di Carla. Labbra su labbra, il mio primo bacio. In mare. Occhi chiusi. E pensavo: perché hai scelto proprio me? Aprii gli occhi, e lei mi chiese: cosa guardavi? La fissai, cosa che mi riesce bene ancora oggi, e non aggiunsi parola. Non per colpire la sua fantasia come esperto e vissuto maestro d’amore, ma semplicemente perché davanti alla sua bellezza restavo sempre senza parole. Restammo in acqua a lungo, mi aiutava a dimenticare la mia goffaggine. Mi piaceva fin da allora restare per ore in piedi sulla battigia ad osservare il mare, il suo orizzonte, il suo movimento ora impetuoso ora lento. Fermo lì, incatenato al panorama per alcuni, all’altrove per me. Ecco, in quel momento, in acqua con Carla ebbi la consapevolezza di essere l’altrove, di essere dentro il panorama. Passarono così i giorni di quell’estate. Consumati tra il mare, la spiaggia, la ghiaia del parcheggio, le cabine di legno calde e impregnate di odori vari, la sua pelle viola prima e poi bruna, i capelli neri umidi di mare, il sale sulla pelle, il mio secondo costume rosso e il suo blu, il suo profumo del mattino, la gonna di cotone bianca con fiori che indossava il primo giorno, la coppa Rica all’amarena, i richiami per andare, le corse tra il bar e la casa senza pavimento, l’asciugamano come scusa, gli annunci dell’altoparlante, il sudore che lasciava tracce sul sale, il flipper che suonava, il juke box, i primi videogames, il moscone da salvataggio usato per sedersi, le pinne blu oltremare, il sapone in bustina per la doccia, l’olio di noce per abbronzarsi, il thermos Giò Style da riempire, gli abbonamenti da validare, le auto da far parcheggiare a pettine, le forti correnti marine, i bambini smarriti, i genitori distratti, i corpi gonfi dei morti restituiti dal mare, la bandiera rossa, le bottiglie di Fanta in vetro scuro, l’infermeria con il lettino in pelle rossa, i pullman delle cinque del pomeriggio, le liti in spiaggia con i bastoni degli ombrelloni, le monete perse nelle fughe delle pedane di legno, i bagni e l’odore di creolina, lo zucchero sulle graffe, le bottiglie di passata di pomodoro da riempiere, il Ferragosto con la spiaggia non piena, il temporale che allaga il parcheggio, la mareggiata che porta le onde fino alla prima cabina, la discriminazione delle persone per reddito e fascia sociale nell’attribuzione della fila di cabina, l’odore della pasta e fagioli cucinata in cabina, le torte gelato con la fetta di ananas al centro, i marocchini che vendevano solo coperte di lana, la Peroni grande, il malore da indigestione, il colpo di sole, il divieto per fare il bagno dopo la peperonata, il costume pieno di sabbia, gli zoccoli di legno alla moda, i sandali di plastica per i poveri, i segni delle asciugamano da mare, gli ombrelloni con il telo intorno, l’aquilone con il paracadutista, le pagliette arrotolate, le canne come coperture fresche per il parcheggio, il tavolino pieghevole di alluminio, le prime sdraio di plastica, il cocco fresco, l’aereo da pubblicità che lancia volantini, l’elicottero giallo della Guardia di Finanza, il salvagente gonfiabile, le telline pescate sotto la sabbia, le anguille morte, le alghe, l’acqua marrone, la foce, le pallonate. Tutto attraversato da quell’attrazione fortissima. Da quella sensazione di farlo subito. E il resto era niente. Niente di niente. Poi arrivò la fine di agosto, l’estate forse stava per svanire, sparire. Qualcuno invece lo ha fatto davvero.

 

 

 

 

 

 

 



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