Camera 100 – Le farfalle nello stomaco, Isabella e l’essenza evocativa.

Blog  |  24 marzo 2013

Lasciami dire una cosa in questo buio di pioggia. Lasciami raccontare di me, in questa strada intorno a mezzanotte. Incrocio volti taluni veri, altri falsi. Occhi persi tra le stanze vuote. Riconosco i segni, non è malinconia. E’ la consapevolezza di voler volare alto, di vedere le cose sfidandole a viso aperto. E’ voler dare senso di fluidità ad azioni che singolarmente sarebbero sempre uguali. Non sono farfalle nello stomaco. Quelle porterebbero ad un risultato diverso? No, porterebbero all’egoismo della voglia. Ma continuo a cercare. Cercare di creare. Cercare di sentire. Non c’è un perchè. Ma io continuo a farlo. Continuo a farlo. Continuo a concentrare l’attenzione su quello che sento davvero, non su quello che dovrei sentire. Per poter vivere quello che è sempre completamente diverso. In quelle code lunghe che Isabella mi aveva fatto notare, mi sono spinto fino a sentire dei sensi di colpa. E sono sempre stato me stesso. Ma sono me stesso anche ora. Anche rompendo le regole che non ho. Tutto è semplice, non c’è altro che entusiasmo. Entusiasmo per superare il risveglio. Entusiamo per aprirmi all’esperienza. Entusiamo per la percezione così veramente bella per il mio gusto. E per bella intendo dire la percezione estetica.  Estetica come misura della qualità del sentire. Per gustare bisogna sentire: pensare non sostituisce in nessun modo il sentire. Ho bisogno dell’impossibile per guardare oltre. Sapendo che non sono grado di, è ciò che mi fa andare avanti. E’ la forza che fa muovere le mie gambe affinchè passeggi nel buio, in queste strade a metà tra ciò che è stato e ciò che sarà. Hai capito? Vedendomi qui, riesci a sentirlo? Cammino tra le strade pensando alla forza dell’accorgersi. Ti accorgi di chi sei, di quanto vivi. E l’accorgersi che mi porta a restituirti ciò di cui mi sono accorto. Quello che mi fa esprimere veramente. Quello che mi fa imparare il tuo linguaggio per essere capito. E per capirmi di più attraverso te. E ti nomino. Quello che non ha nome sfugge alla memoria.  Perciò ti chiamo. E restituisco il sentire esprimendomi, non parlando. Perché parlare di, non è la stessa cosa di esprimere di. Non ha lo stesso significato, non ha lo stesso effetto. Esprimermi con consapevolezza, Questa la vera essenza evocativa. Laddove gesti e parole vogliono restituire l’esperienza vissuta. Riuscire a restituire ciò di cui mi sono accorto. Cammino lentamente sotto questa pioggia, mentre il domani mi arriva di sorpresa. Come quella notte che ti sognai che mi parlavi. Mi piace andare per visioni raccontando la verità. E cammino tra oggetti e immagini. Una lettera di carta. Nessuna stanchezza. Distrazione. Censura, la cui prima vittima è la verità del sentire. Ascolto l’inconscio, che ne sa più di noi che ci porta a cercare laddove non andremmo mai. Verso luoghi più inclini all’essenziale. L’aria fresca spezza la pigrizia dei pensieri, riportandomi alla sincerità spietata e letale. Di un passato relazionalmente trasandato. E ti racconto. Mi concedo anche me stesso, in questo racconto universale. Universale perché intimo. Una storia turbata e entusiasmata. Una storia da sconquassato dalla testa nel muro, il cui mal di testa è l’anticipazione più felice. L’emozione di essere stato riconosciuto. Trascuro ciò che è comune, e riconosco ciò che è nascosto.

Tra una voglia e un’utopia / e così oggi è già domani.



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