Camera 1117 – Come un abbraccio con un solo braccio.

Blog  |  22 ottobre 2012


Milano, 18 ottobre 2011

Di muri ne sono caduti molti negli anni, alcuni importanti per tutti. Altri importanti per pochi, forse per una sola persona.  Il mio muro cadde in poco tempo ed improvvisamente. Mentre un tempo precedente ero stato in grado di anticipare i pensieri, mi trovai ad arrivare ultimo sulla scena di quel muro crollato. Accadde molti anni fa e perché mi sia tornato tutto alla mente stasera, lo devo all’ impatto emotivo suscitato da due oggetti insoliti. Lei me lo diceva ogni lunedì che ci incontravamo. Che forse era arrivato il momento di vivere quello che sentivo e sentire quello che vivevo. Così mi siedo davanti a questa finestra, per scrivere come allora, per sentire quello che vivo ora. Scrivere una storia è raccontarla. Raccontarla permette di allontanarmene e forse di capirla. Di dare un senso, un altro senso forse. Puntando alla storia nella sua interezza non ai singoli momenti di cui è composta, cerco il legame di questa storia al resto della vita. A volte non mi riesce di farlo in modo sufficiente e appassionante, e mi concentro su quegli oggetti parlanti che mi circondano, affinché mi parlino di un pensiero sconosciuto di cui potrei andar fiero. Storia di una persona, per esaltare sia le diversità sia le somiglianze. Che io sia un insieme di diversità lo si vede anche dal di fuori: una serie di diverse e articolate personalità che formano insieme la stratificazione di me stesso, tutto assoggettato ad un unico stile. Gli eventi, le persone, le cose, i luoghi: non cancello alcunché, limitandomi a disporli sul palcoscenico o sul retroscena della mia memoria. Stasera è la storia di una fine in un qualche modo, laddove la fine, la morte, serve a dare spazio ad altra vita. Perché scrivere di una fine serve a comprendere quello che è stato, le scelte, le azioni, ciò che ho avuto, ciò che ho lasciato, nella speranza che possa tornare a raccontare. Scrivere significa fare delle scelte: chi è il protagonista, di quali cose narrare e quali altre nascondere, quali esaltare e quali omettere. Ma a volte alcuni personaggi hanno una tale forza da irrompere sulla scena, da reclamare uno spazio maggiore, urlano e saltano, non puoi evitarli. Storie che diventano così improvvisamente violente, la cui fine è più difficile di altre. Sono qui e me ne rendo conto. Sono io che scrivo e devo forzare la mia mano o devo aspettare in silenzio che tutto sfumi via. A volte mi distraggo affinchè la storia continui da sè, per arrivare ad un compromesso, arrivare al tradimento del mio silenzio, alla mia fiducia violata, alle mie debolezze esibite. E così poi la storia può sfuggire via, e io ne perdo il controllo. E per me perdere il controllo non è mai stato facile, semplice o anche cercato. E’ solamente accaduto. Così poi restano i due modi di chiudere una storia: nessuno dei due immediati. Ma uno è necessario. Altrimenti il passato con i suoi labirinti mi intrappola. Apro la finestra, il vento freddo e deciso entra facendo volare la tenda. Agita tutto, scompiglia le parole e mescola le idee. Luci che appaiono e scompaiono come ricordi nella mente. A volte basta davvero poco. Io una settimana fa aspettavo e cercavo le tue parole, quelle stesse che scarabocchiammo qualche mese fa. Ora le hai riscritte, in bella, con ordine, ma senza senso. Per me.  Vuoi che posi la valigia, vuoi che la metta via. Non per sempre, forse, ma per molto.  Io che in te ero pronto a perdermi, mi trovo perso fuori da te. E’ il senso del fallimento. E’ il senso del nodo in gola, delle parole soffocate, delle azioni interrotte, delle urla che non sono capace di fare. Poi ti assale la gelosia irrazionale e immotivata per quel posto vuoto. A cosa serve pensarci? C’è stato un momento in cui ci ho pensato, ho provato a raccontartelo. Ma non hai ascoltato. Allora il vento porta il senso di colpa. Per aver agito, per aver agito male, per non aver agito. Mi agita, ma forse mi dovrei sentire peggio. Sconfitto e sbagliato, in questo luogo marrone. Dov’è il mio blu? Quello che mi da la forza di dire ho sbagliato, è stata colpa mia, che non ho fatto abbastanza. Questa lettera è un posto unico: quello che racchiude i segreti della storia vissuta, quello da cui vuoi andare via per ricominciare. Quello che vorresti non rivedere più, quello che vorresti ti chiudesse dentro per sempre. Ma nulla è per sempre, lo sapevo. Quello che non sapevo è quando sarebbe finito quel per sempre. Tre anni per una sola lettera, come un abbraccio con un solo braccio.



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